#Venezia1600. Il tramonto della Serenissima

#Venezia1600. Il tramonto della Serenissima


Dopo la riconquista della Terraferma (1517) ed eccettuato il duro impegno contro i turchi concluso a Lepanto (1570-1571), il Cinquecento fu per Venezia un secolo d’oro, che si concluse virtualmente con la triplice impresa del taglio di Porto Viro, seguito dall’Interdetto e la dimostrazione del cannocchiale da parte di Galileo. Di che si tratta?  Ecco qua.

Sul delta del Po, a Mesola, Alfonso II d’Este aveva fatto costruire un castello munito di porto; lui diceva che si trattava di un buen retiro per le sue villeggiature, ma quando nel 1598 Ferrara viene devoluta alla Santa Sede in base al diritto feudale, il Senato comincia a sospettare che la Mesola, situata al termine della maggior arteria fluviale della Val Padana, possa diventare un porto in grado di togliere qualcosa all’emporio realtino.  E decide di intervenire. Ecco allora l’immissione di un ramo del Po nella sacca di Goro, in territorio veneto, che affossò ogni possibile sviluppo di un porto alla Mesola. Il papa, Clemente VIII Aldobrandini, protestò, reclamò, strillò, ma niente di più, perché la Repubblica aveva dato inizio ai lavori nel 1600. E allora? Allora il 1600 era l’anno del Giubileo: poteva il Santo Padre far scoppiare un conflitto fra Stati cattolici per motivi economici?  Non poteva e non lo fece, e così il Veneto acquisì il delta del Po, che il nuovo taglio strappò rapidamente al mare. 

Qualche anno più tardi, tuttavia, si andò vicini alla guerra; fu in occasione dell’Interdetto. Il motivo venne provocato dai divieti, emanati dalla Repubblica fra il 1604 e il 1605, con cui si proibiva l’alienazione di beni immobili agli ecclesiastici.  Ne avevano fin troppi, disse il Senato. Sennonché sul trono di Pietro ora sedeva un pontefice, Paolo V Borghese, di tempra assai diversa da quella del predecessore, per cui la situazione andò via via deteriorandosi finché il 17 aprile 1606 il papa scomunicò il governo della Serenissima, proclamando nel contempo l’Interdetto, ossia il divieto di praticare gli uffici sacri in tutti i territori della Repubblica. Fu una prova di forza niente affatto scontata, perché dietro il papa c’erano le potenze asburgiche, ossia la Spagna a Milano e l’Impero, che circondava tutto il confine settentrionale della Serenissima, dal Trentino all’Istria. 

La fortuna di Venezia fu di avere un doge della statura di Leonardo Donà e un eccezionale consultore in jure (esperto di diritto canonico), quale Paolo Sarpi. Naturalmente la Santa Sede cercò di farlo fuori, ma riuscì solo a ferirlo; avvenne nel campo di Santa Fosca, dove ora sorge la sua statua. Questo monumento è forse l’unico di Venezia che non sia mai stato imbrattato: vuoi vedere che i nostri coraggiosi eroi notturni dello spray hanno conservato un brandello di coscienza civica?
La contesa veneto-pontificia si concluse il 21 aprile 1607 con la revoca dell’Interdetto, ma per consentire alla Compagnia di Gesù – rea, nella circostanza, di aver obbedito a Roma – il ritorno nei dominii della Repubblica si sarebbe dovuto attendere mezzo secolo, fino al 1657. 

Quanto al cannocchiale, il 21 agosto 1609 ebbe luogo la sua presentazione a una commissione di senatori; avvenne nel campanile di S. Marco, donde si videro i chioggiotti passeggiare nella piazza davanti al palazzo del podestà; qualche mese dopo Galileo pubblicava - sempre a Venezia -  il Sidereus nuncius.

Diversamente dal secolo XVI, il Seicento fu segnato da guerre, incessanti conflitti – più o meno impegnativi, taluni gestiti direttamente, altri sostenuti finanziariamente - che si chiusero, di fatto, con la seconda guerra di Morea (1718). 
Ecco allora la guerra di Gradisca contro gli arciducali austriaci (1615-1617), quella della Valtellina contro Spagna e Impero (1623-1626), poi le due guerre del Monferrato avverse al duca di Savoia (1612-1617 e 1627-1631), infine quella di Castro contro la Santa Sede (1641-1644). Conflitti per lo più ingloriosi e di scarsa rilevanza (ben maggior incidenza avrebbe avuto la peste del 1630-1631, oltrettutto sommatasi a quella del 1575-1576); lunga e spossante, invece, fu la guerra che la Serenissima dovette affrontare contro i turchi, negli anni centrali del secolo.

Il 23 giugno 1645 una flotta ottomana comparve davanti alla Canea (Xanià), nell’isola di Creta, che il sultano sentiva come un cuneo in mezzo ai suoi dominii; aveva così inizio un conflitto destinato a prolungarsi per ventiquattro anni, a causa dell’impossibilità, per i due avversari, di riuscire a infliggere al nemico il colpo decisivo: invincibili i turchi per terra, troppo superiori i veneziani sul mare. Finalmente, nel 1669 il Provveditore generale Francesco Morosini decise la resa, ottenendo però generose condizioni, tra cui la conservazione delle tre piazzaforti di Suda, Grabusa e Spinalonga, e il trasporto a Venezia degli archivi di una dominazione che durava dal 1209, e ancora portando con sé l’immagine della Mesopanditissa, la Madonna nera che fu posta nell’altar maggiore della chiesa della Salute, a Venezia.

Gravissime le conseguenze finanziarie: per soccorrere l’erario il Senato pose in vendita i beni demaniali (i campi della pianura furono tutti acquistati da privati, non così quelli delle aree montane; per questo motivo nelle Dolomiti ci sono ancora le Regole, dove i locali possono andare a far legna); poi il titolo di Procuratore, l’ingresso nel patriziato, persino le Procuratie in Piazza S. Marco: un lotto se lo comprò tale Floriano Francesconi e ci aprì un caffè: è l’attuale Florian.

 

L'impero Ottomano nel periodo della sua massima estensione (sec. XVII)

Morosini subì un processo per aver evacuato l’isola, ma nel 1684 fu proprio lui a essere nominato Provveditore generale da Mar quando si riaccese il conflitto. Era successo che i turchi, in un estremo conato espansionistico, nel 1683 avevano posto l’assedio a Vienna, ma erano stati sconfitti, dando inizio a una disastrosa ritirata nei Balcani. A questo punto Venezia decide di correre in aiuto al vincitore, si allea con l’Impero asburgico e Morosini sbarca in Morea (così i veneziani chiamavano il Peloponneso), che viene rapidamente conquistata. Cipro, Candia, Morea: era il terzo regno, che consentiva al doge di una Repubblica di sedere fra le teste coronate. Ma fu un trionfo effimero perché essa fu persa al termine dell’ultimo conflitto veneto-turco, nel 1718.

Finiva così un secolo di dure lotte e si apriva per la Repubblica l’ultima fase della sua esistenza, che non avrebbe più conosciuto modifiche territoriali. Da allora infatti la Serenissima non sarebbe più intervenuta nei conflitti che interessarono la Penisola; proclamò infatti la neutralità armata in occasione delle tre guerre di successione europee: quella spagnola (1701-1714), polacca (1733-1738) e austriaca (1740-1748), che si combatterono soprattutto nell’Italia settentrionale: per decidere infatti se sul trono di Varsavia avrebbe dovuto sedere Augusto di Sassonia o Stanislao Leczynski, quale miglior campo di battaglia della Val Padana?
Quindi la pace, anni di tranquillità per il Veneto. 
 

la Repubblica Veneta nel 1790


In Europa il XVIII secolo fu l’età dell’Illuminismo, e da noi? Ma sì, ci fu anche nella vecchia Repubblica, o quantomeno si verificò qualcosa che ci assomigliava moltissimo.  Tuttavia occorre distinguere: la Dominante visse sempre più di un’economia parassitaria, basata sul rango di capitale di uno Stato che da Bergamo giungeva pur sempre sino a Corfù, ma di fatto poggiante sul lusso, sul Ridotto (il casinò di allora), sulle feste, i teatri, il Carnevale, eventi che attiravano migliaia di forestieri, fossero sovrani (nel XXVI capitolo del Candido [1759], Voltaire immagina che in un albergo – forse l’attuale Hotel Luna Baglioni – si ritrovino a cena sei ex re in esilio: il sultano Achmed III, lo zar Ivan VI, il pretendente inglese Carlo Edoardo Stuart, il re di Polonia Augusto III, Stanislao Leczynski - di cui si è detto qualche riga sopra - e Teodoro di Neuhoff re di Corsica), oppure avventurieri come Giacomo Casanova e Cagliostro. Un tramonto ispirato a una paradossale felicità, decorato da una straordinaria fioritura artistica segnata dai nomi di Tiepolo, Piazzetta, Longhi, Guardi, Carriera, Bellotto, Canaletto e poi Gozzi, Baretti, Goldoni e, perché no? Foscolo.

Per trovare davvero l’Illuminismo bisogna però volgere lo sguardo alla Terraferma, dove si sviluppa la protoindustria nell’area prealpina, da Schio a Tolmezzo, accompagnata dal fiorire degli studi agronomici (nel 1765 viene istituita a Padova la prima cattedra di agricoltura esistente in Italia, affiancata nove anni dopo da quella di veterinaria) e dalla nascita delle Accademie agrarie.  Un decreto del 10 dicembre 1768 obbligava infatti le società culturali dello Stato a trasformarsi in accademie agronomiche: insomma, basta esercizi arcadici, pastorellerie e ninfette, bisogna studiare fertilizzanti chimici, irrigazioni, patti agrari, allevamenti modello.  Fu un successo: nell’arco di un trentennio le Accademie agrarie toccarono il numero di diciannove, da Crema a Spalato. Le campagne venete ne trassero notevoli benefici, benché avessero già toccato livelli di eccellenza: ascoltiamo in proposito la testimonianza di Charles de Brosses, membro della francese Académie de sciences lettres et beaux-arts, che così scrisse nel 1739: “Le terrain qui est entre Vicence … In italiano: La campagna che troviamo fra Vicenza e Padova merita da sola un viaggio in Italia”.

Queste innovazioni potevano essere l’inizio di ulteriori progressi, ma nel 1796 vennero i francesi e, con loro, la fine della Serenissima. La pace di Campoformido (17 ottobre 1797) assegnerà il Veneto, l’Istria e la Dalmazia all’Austria, ai francesi le isole ionie. Venezia fu sottoposta a una spoliazione sistematica: prima di lasciare la città gli ex giacobini si portarono via i tesori accumulati nell’arco di dieci secoli, migliaia di opere d’arte finirono Oltralpe, ad arricchire il neonato museo del Louvre; l’arsenale fu spogliato di tutto, il Bucintoro bruciato per ricavarne le lamine d’oro che lo rivestivano, i cavalli della basilica marciana presero la via di Parigi, per adornare l’arco di trionfo del Carousel.  Sarebbero stati gli austriaci, nel 1815, a farli tornare al loro posto, sulla facciata della chiesa di S. Marco; ebbene, per essere di bronzo quei cavalli ne percorsero di strada: da Costantinopoli a Venezia, da Venezia a Parigi, poi il ritorno in laguna, dove speriamo possano continuare la loro millenaria corsa immobile.
 

Giuseppe Gullino 
Già Ordinario di Storia moderna presso l'Università di Padova - Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arte.
Tra le sue opere La saga dei Foscari. Storia di un enigma (2005), l'Atlante della Repubblica Veneta 1790 (2009), Storia della Repubblica Veneta (2010). 

 

Redazione Cultura Veneto - Regione del Veneto 
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Data

15/06/2021